LEGGERE LA SENTENZA
APRIRE LA PEC …
Oggi ho avuto una bella soddisfazione. Non è mia abitudine parlare del mio lavoro (penso di non averlo mai fatto), ma questa cosa mi ha dato lo spunto per pensare un po’. Ed ora scrivo di getto cazzeggiando su Facebook, perché sono un po’ svuotato e perché un cliente mi ha bucato l’appuntamento.
Quando arriva la pec dal Tribunale che contiene la sentenza o l’ordinanza, se il “responso” è importante, se si ha lavorato con passione, se si sono perse ore di sonno, giorni di studio, ore e ore a scrivere e riscrivere gli atti e a preparare le udienze … e quando, soprattutto, sono in gioco pezzi importanti di vita dei clienti, l’adrenalina sale a mille mentre si clicca per aprire la busta. Se poi è un provvedimento cautelare ed importante, ancor più! Avvelenamento di cortisolo.
Dopo 25 anni di professione, mi sono fatto il callo a tutto, ma a questo no. E’ un aspetto del lavoro al quale non mi abituerò mai: ogni volta lo stress va fuori controllo. Le dita tremano, che sia in aula o che sia davanti al computer. Anzi, peggiora, perché tutto è sempre più complicato ed incerto nel “pianeta giustizia”. Sei li, inerme ed impotenete, e dipendi dalla pronuncia, dal “verbo” del Giudice.
In un secondo ti passa davanti tutto il lavoro fatto e vengono mille domande alla mente. Avrei dovuto usare una strategia diversa? Ho usato le parole giuste? Ho svolto correttamente le domande? Ho trattato i temi correttamente? Ho interpretato le leggi? Ho spiegato in modo logico e giusto al Tribunale? Mi avranno capito? Avranno letto? Ho adeguatamente contrastato le ragioni avversarie? Ho esagerato con i documenti o avrei dovuto allegare di più? Sono stato prolisso o troppo conciso? Avrei dovuto o potuto fare diversamente, consigliare diversamente, impostare diversamente? All’udienza, quando sono stato zitto per paura di annoiare il Giudice ho fatto bene? Avrei dovuto combattere, alzare la voce, o è stato corretto mantenete un tono sobrio e conciso?
Insomma salgono le farfalle allo stomaco.
Forse è un buon segno. Forse significa che tengo al mio lavoro. Però è una cosa che, indipendentemente dall’esito, mi lascia svuotato.
Se è andata male, specialmente quando sei convinto delle buone ragioni del cliente e di aver fatto un buon lavoro, il segno dura per mesi. Mi sveglio di notte e ci penso e ripenso: una ferita che si rimargina in modo molto lento; brucia e mi consuma.
Se è andata bene, è una gioia incredibile, ma effimera e solitaria. Passa prestissimo, perché ci sono altre cause, altre difese, altri problemi che aspettano impellenti. E’ solitaria perché non si tratta di lavori condivisi in gruppo: è la tua causa e solo tu la conosci e tutti i problemi risolti e le decisioni prese sono solo tue, i dubbi sono tuoi, inspiegabili e inenarrabili (perché c’è il segreto professionale e perché comunque spesso è troppo complicato, nessuno capirebbe). A volte trovi le soluzioni o le intuizioni facendoti la barba al mattino, o in auto mentre vai al lavoro. Altre volte le soluzioni non arrivano mai, le parole non escono e gli atti rimangono in attesa di essere riempiti, riga per riga, con una fatica tremenda.
Con chi condivido tutto questo? A chi interessa? A nessuno. L’avvocato è solo, soprattutto in caso di esito favorevole della causa. Nemmeno il cliente può capire. Spesso per lui è tutto scontato. Quello che vede sono poche pagine scritte (lui pensa: “scritte di fretta”, per giunta). Non vede i tuoi dubbi, i tuoi studi, la tua intuizione, le tue difficoltà, gli anni di esperienza messi a frutto, le lacune ancora da colmare e le tue paure.
Pensa che, se ha vinto … semplicemente aveva ragione e che i buoni vincono perché così va il mondo e che per i giudici è logico dare ragione a quelli giusti. Non capiscono e non comprendono che tra avere ragione e farsi riconoscere la ragione ci passa un oceano e che quell’oceano a volte l’avvocato se lo deve attraversare da solo su una barchetta a remi in mezzo alle tempeste.
Sono intimorito nell’aprire la busta con il provvedimento del Tribunale, quando so che il cliente ha ragione. So che alcuni Giudici sono veloci, troppo veloci, nelle valutazioni. A volte superficiali. So che posso aver commesso qualche errore e, del resto, di errori se ne possono commettere a decine, perché in certe vertenze i trabocchetti sono ovunque. So che la giurisprudenza è divisa, qualche volta altalenante, qualche volta “innovativa” e qualche altra “conservativa”, so che la convinzione di un giudice può scaturire da un particolare, da una cosa non vista o non tenuta sufficientemente in considerazione, da una mancata contestazione, da un silenzio assenso … da mille sfaccettature.
So anche che ci sono giudici preparati, puntigliosi e che studiano tutto il fascicolo, riga per riga, documento per documento. E questo, se vogliamo, fa ancor più paura, perché il tuo lavoro verrà valutato da un Magistrto con le palle. E’ come rifare l’esame all’università. Stessa paura.
E poi so che il cliente, un ora dopo che hai portato a casa il risultato positivo è già un tuo nemico: dovrà pagare la parcella. Sarà sempre troppo alta, per lui … e troppo bassa per me. Per lui tutto è scontato: qualche colloquio, qualche atto e qualche udienza … in tutto al massimo una ventina di ore di lavoro, per lui. Centinaia, invece, per me: studi, concentrazione, spostamenti, attese, scrittura e riscrittura di atti, formazione del fascicolo, valutazione di decine di documenti, ricerche giurisprudenziali, consultazioni di leggi … per non parlare di tutta la preparazione e competenza acquisita negli anni.
Se il risultato è negativo, allora ti aspettano ore e ore di discussioni, domande, spiegazioni. Sembra che io mi debba giustificare in tutto, trovare delle scuse … perché avrei lavorato male, anche quando sono consapevole di aver dato il massimo e che la giustizia dei tribunali non corrisponde mai a quella percepita dalle persone. A volte può essere diversa. Anzi, lo è comunque sempre, per definizione e nei fatti.
In un caso o nell’altro l’avvocato finisce per essere un “truffatore del cliente”, che difficilmente parlerà bene di lui.
L’avvocato è solo, nelle soddisfazioni e nelle delusioni.
Ma, tutto sommato, è una bella solitudine.