MASSIMO, CRISTIANO e MARCO: EROI “NORMALI” DELLA TRANS D’HAVET
Tutto è nato da un improbabile scherzo, annaffiato da abbondante prosecco. Una sera di circa tre mesi fa, un gruppo di amici burloni, piuttosto alticci (evento non raro), hanno finto di essersi iscritti alla Trans D’Havet, gara che peraltro assegna il titolo di Campione Italiano di Ultra-trail e di Marathon Trail, prendendo in giro Massimo, l’unico “coniglio” che certamente non avrebbe avuto le “palle” per iscriversi.
La difficoltà dell’evento, rapportata alla “prestanza fisica” dei sedicenti iscritti, rendeva evidente si trattasse di uno scherzo per “coglionare” Massimo. Il tenore era circa questo: “Noialtri femo la Trans d’Havet e ti non te ghe i cojoni per iscriverte; te si el solito coniglio”. Più o meno era questo il livello più dolce degli insulti diretti a Massimo.
Facciamo un passo indietro. I nostri eroi, belli carichi di vino, birre e grappini, insultavano Massimo come fossero atleti veri, loro, e il campione di divaning, lui. Ma se li aveste visti mangiare avidamente costine e salsicce come se non ci fosse un domani, con le pance tonde, l’adipe strabordante ed il peso attorno ai 100kg (più su che giù), non ci avreste creduto nemmeno per una frazione di secondo che stessero dicendo sul serio. La Trans d’Havet, anche quella che chiamano “corta”, ma che poi è lunga quasi 44km effettivi con 2000 metri + e oltre 2500-, era un obiettivo impossibile. Pareva ovvio si trattasse di una boutade.
Massimo, invece, forse complice l’alcol, non capì che si trattava di uno scherzo.
Egli è un imprenditore che si alza alle 6 di mattina, alle 6,30 è al lavoro, che termina non prima delle 19,30. Qualche volta si concede la pausa pranzo, ma quasi mai sufficiente per buttarci dentro una corsetta o qualche tipo di attività fisica. Il sabato lavora fino alle 12, ma il pomeriggio e la domenica torna spesso in azienda per controllare le lavorazioni della macchine sempre attive (“cambiare i tochi”).
Massimo, alle 6:32 del giorno successivo allo scherzo, pensa: “gliela faccio vedere io a quelli che la Trans D’Havet la porto in fondo”. Detto fatto, si iscrive on line.
Più tardi, quel mattino, mi chiama Cristiano e mi dice: “Massimo si è iscritto alla Trans D’Havet … e adesso che cazzo facciamo?”.
L’orgoglio tramuta lo scherzo in sfida: le posizioni si sono ribaltate. Si iscrivono anche Cristiano, Stefano, Marco, Dario.
Io no, io son “rotto”: dovevo partecipare alla Lavaredo Ultra Trail, ma mi sono praticamente sfasciato una caviglia (e non solo). Vista la mia esperienza nelle ultra, mi eleggono Coach e Trainer: impresa disperata. Questi soggetti la passeggiata più lunga che hanno fatto è stata il giro dell’Ikea … con la scala mobile per salire.
Visto che siamo in tema di burlonate, scrivo nel gruppo WhatsApp (prontamente formato), il lunedì mattina: “allenamento di oggi: cima Marana e ritorno, petto di pollo con verdurina cotta, no pane”. Dimentico le istruzioni impartite sino alle 9 di sera quando mi arrivano i selfie a dimostrazione del compimento del programma giornaliero: “Minchia, questi qui fanno sul serio”.
Tutti, tranne Massimo, il cui programma non viene puntualmente rispettato: viene sostituito con “passeggiata serale alla gelateria Biplano e ritorno”, salvo poi una camminata di 20, massimo 30 Km nel week end. Di corsa non se parla.
Passa qualche settimana, la dieta funziona, i chili diminuiscono proporzionalmente ai prosecchi alla sopressa e formaggio, i chilometri aumentano, gli allenamenti scorrono, l’acido lattico è in costante smaltimento.
Mi iscrivo anch’io, alla fine, dopo due mesi di stop forzato e la caviglia non ancora a posto: un vero coach non abbandona la truppa, neanche con la caviglia ancora piuttosto precaria! (grazie Betta per avermi trovato un pettorale all’ultimo minuto).
I giorni precedenti alla gara sono dedicati alla preparazione del materiale. Massimo acquista abbigliamento tecnico, lo sparge sul pavimento e fa una foto, mandandola al gruppo. Saranno circa 30 Kg. di roba e ricambi, neanche andasse una settimana sul Monte Bianco (mancano solo i ramponi). Immagino la faccia felice del negoziante, dopo avergli rifilato tutto quel ben di dio, e me la rido. Cristiano compie scelte più mirate, ma non certo per il “look”: tra scarpe, calzini, pantaloncini, maglia e zaino, non c’è un colore che non suscita conati di vomito messo assieme agli altri: deve aver avuto il Matteo Bortolaso quale consulente moda, abbiamo dei dubbi perché Matteo avrebbe consigliato anche qualche capo in montone scamosciato, ma per il resto lo stile è quello. Vince la “Coppa Fashion” a tavolino.
Dario, colpito da mania ossessiva compulsiva per acquisto scarpe, si lancia su Amazon: primo paio di Hoka, numero sbagliato, secondo paio si rompono alla prima uscita, terzo paio pagato ma non arriva in tempo per la gara (500 € buttati nel cesso).
Il giorno prima della gara il gruppo è carico e compatto. Il giuramento d’onore è quello della solidarietà: qualsiasi cosa succeda, staremo uniti in gruppo. Giuriamo solennemente: “Partiamo assieme ed arriviamo assieme”.
Notte prima degli esami. Alla faccia dell’ “io me ne frego, tanto è una passaeggiata”, nessuno dorme. Sono tutti tesi come se la mattina dopo dovessero subire un processo penale in cui si rischiano trent’anni di galera.
Pian delle Fugazze. Sorrisi tirati, battute per tagliare la tensione … rinnovo del giuramento di solidarietà.
Tre … due … uno … si parte, rigorosamente in ultimissima posizione.
Trattino d’asfalto in leggera discesa per sgranare il gruppo. Tutti, davanti, corrono. “minchia, questi corrono!” Corricchiamo anche noi, per non fare la figura dei deficienti (l’orgoglio!).
250 metri dalla partenza, la stanchezza della “lunga corsa” inizia a farsi sentire, assieme alla delusione: gruppo fermo imbottigliato all’imboccatura del sentiero: “che cazzo abbiamo corso a fare!?”. Meno male che ci si riposa.
I ragazzi comunque sono tonici e allegri. La prima salita è a buon passo, pure troppo, secondo me (so che è lunga e che bisogna dosare le forze, ma loro no).
Dopo trecento metri Dario e Stefano non si vedono più. Solito effetto pettorale: gli metti un numero addosso, gli si gonfia la giugulare, dimenticano il giuramento di solidarietà. Da quel momento quando parleremo di loro non li chiameremo più per nome, ma con l’appellativo “merdacce”. Meritatissimo, care merdacce!
Le chiacchiere, in breve, vanno a zero, o quasi. Me la rido: la voglia di ciacolare finisce in fretta … vedrai che la lezione la imparano in fretta”.
Noi comunque si avanza spediti ed allegri e, in meno di un’oretta, siamo a Campogrosso. Quando il sentiero spiana, Cristiano si mette addirittura a correre e gli altri … a corrergli dietro. Boh, si vede che li ho sottovalutati o li ho allenati troppo bene: impossibile.
Breve ristorino e giù per la prima discesona verso Recoaro. Ostrega, corrono. Secondo me troppo. Ogni tanto tento di riportarli alla realtà suggerendo che la discesa spacca le gambe più della salita, che sarebbe meglio rallentare un po’ il ritmo e far girare le gambe più piano. Loro rallentano, ma poi riprendono il passo. Sarà …!
Ed infatti … è.
Nel cambio pendenza di Merendaore, con visita guidata a tutta la ridente contrada, Massimo inzia ad accusare un po’ di mal di schiena e le gambe più dure. Passerà … no non passerà più.
Tanto ormai siamo al ristoro: illusi.
Il ristoro arriva, si, ma dopo il tour “Gruppo Vacanze Piemonte” delle contrade di Recoaro: ma quante cazzo di contrade ha sto’ posto?
Ma la cosa più sadica che deve essere venuta in mente agli organizzatori è che in ogni contrada c’è almeno un cazzo di barbecue con costine e salsicce. Le inalazioni aprono i polmoni, fanno gorgogliare la pancia e sognare il paradiso. Questa è tortura vietata dalla Convenzione di Ginevra.
Massimo è quasi andato: i dolorini sono diventati dolori e i dolori sofferenza.
Vedi che avevo ragione!? I ragazzi l’hanno presa un po’ troppo gagliarda, la faccenda. Adesso si stendono.
Frugo nello zaino per cercare qualche sostanza dopante per Massimo, chessò, morfina, cocaina, LSD, ma mi saltano fuori solo due miseri gel con maltodestrine. Devo dosarglieli: maltodestrine si, ma solo dopo le minestrine.
Recoaro Terme, zona Fonti Centrali. Fa caldo afoso e, siccome le passate ultratrail qualcosa mi hanno insegnato, mi prendo, appunto, una minestrina calda. I compagni mi guardano con aria schifata come quando a mia figlia gli si propina il passato di verdura invece delle patatine fritte. Minestrina co’ stà afa? Insisto: “ehi ragazzi, anch’io le schifavo le minestrine, ma non c’è doping che tenga a confronto; questa è roba che ti rimette in piedi”. Mi ringrazieranno per il consiglio e le minestrine diventeranno un must per tutto il resto della gara (gara … si fa per dire).
Minestrina, coca cola e birra assieme … con pane, formaggio e speck … rientrati nel bosco ti fanno ruttare che si paventa la deforestazione della tempesta del 3 novembre 2018. Però funziona.
Guardo Massimo negli occhi e capisco che è finita: non ce la farà mai a farsi gli altri 25 km che ci separano da Valdagno.
Gli chiedo: “da uno a dieci, quanto male hai”?
Risposta: “otto”.
Pensiero: “è nella merda”.
Tiro fuori il primo gel (quelli che ha lui sono una fregatura, l’ennesima che si è preso dal negoziante “tecnico”). Lo ingurgita. “Tra cinque minuti sentirai un po’ più di energia” – gli dico.
Passano dieci minuti e mi risponde: “mi no sento un casso de energia”. Annamobbene!
Perdiamo Marco (tonicissimo) e Cristiano (affaticato ma cazzuto), che chiamano al telefono: “Siete davanti o dietro?”
“Checcazzoneso?”
“Noi abbiamo deviato e siamo andati a farci il bagnetto in una fontana”. Due piccioni.
Procediamo frullando i bastoncini accanto a uno che ci racconta la sua avventura al Tor De Geants (vedi che nella vita c’è sempre qualche disgrazia peggiore!) e, nemmeno due minuti dopo, Cris e Marco ci riprendono da dietro. Avevamo temuto un’altra infedeltà: sarebbe stata insopportabile! Per fortuna le merdacce rimarranno sempre due (vero Stefano e Dario?).
Suggerisco a Massimo di fermarsi a Recoaro Mille, chiamare la morosa e farsi riportare a casa. La lancetta degli 8 su 10 passa a 9/10. Soccazzi.
“Massimo tira fuori la cazzimma, mi guarda negli occhi e afferma perentoriamente: “O Valdagno o morte”. Penso alla morte imminente, taccio, e riprendiamo la salita verso Valdagno. Questo non molla neanche a fucilate. Un Marines.
Riprende fiato, la salita “tira” ma non è poi così male. La temperatura diminuisce ed è un toccasana. Per me, intendo, Massimo ormai deve essere insensibile a tutto.
Si fermano un paio di amici che scendono in mountain bike. Faccio due chiacchiere; loro mi riferiscono che più su ci sono rampe “in piedi” con gente che agonizza e bestemmia peggio degli spazzini del porto di Marghera. Tengo prudentemente l’informazione per me, senza divulgarla al gruppo. Mi sento saggio.
Il sentiero, infatti, poco dopo devia dritto per dritto sulla pista da sci. Sorprendentemente, dall’essere quasi in solitaria, troviamo una sorta di folla dantesca dei dannati che agonizza, bestemmia, si siede, fa due passi avanti ed uno indietro.
«Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?» (Inferno I, 76-78).
Cristiano sembra un tank della Panzer-Division nazista, incrociato con un mulo della brigata Julia: frulla le racchette ed avanza a testa bassa sbuffando. Ride. Anzi no, sta tirando la bocca con l’espressione di uno che ha appena avuto un ictus. Marco non esce dalla sua tranquilla serenità (questo si deve essere allenato di nascosto con ripetute extra). Massimo è nel pieno della rassegnazione avanzando come uno zombie. Mi metto dietro e lo spingo. Non ha il coraggio di rifiutare l’aiutino. Fortuna che un po’ di nebbiolina rinfresca l’aria e lo spirto.
Come un miraggio, proprio in cima alla rampa dell’espiazione (chi è arrivato in cima ha l’assoluzione papale urbis et orbis), si concretizza la minestrina … ehm … il ristoro. Birretta e si riparte.
E’ fatta: d’ora in poi le salitone sono finite: si scenderà per 1400 e rotti metri di dislivello, fino a Valdagno. Buona notizia? Niente affatto! E’proprio questo il dramma: meglio altri mille metri di salita che la discesa, per chi ha le gambe andate.
Qui è casa nostra, sono i nostri sentieri. Le Casoline ormai le abbiamo quasi consumate: si conosce ogni sasso. Errore: la stanchezza crea una confusione mentale tale da non riconoscere nemmeno la foto della mamma.
Massimo è in crisi nera. Siano a 12/10 di sofferenza: sta superando se stesso. Non ho parole per descrivere l’energia che lo fa andare avanti: disperazione, tenacia, forza di volontà, incoscienza … che sarà mai la forza che lo spinge? Forse solo la forza di gravità. Non piange solo per non fare brutta figura o per paura che chiamiamo il soccorso alpino però si vede che vorrebbe farlo. Vuole arrivare. In ginocchio ma vuole arrivare.
Suggerisco un obiettivo alternativo minimo: il Bar Roma. Mi mandano in mona. In effetti il bar Roma è a 47 metri dall’arrivo, ma pensavo che l’idea di pizza e birra potesse rincuorare gli animi.
Cerco allora di parlare di qualcosa per distrarre la truppa, soprattutto Massimo. Penso che se mi metto a parlare come il “Rava” Ravazzolo lo stordisco e magari sprofonda in uno stato di ipnosi che lo porta fino all’arrivo. Cerco di indurgli una sorta di stato di “running high” (a livello fenomenologico il “running high” è descritto da un’estrema sensazione di felicità, aromonia interiore, quasi estatica, sensazione di unione fra sè e l’ambiente, pace, perdita della cognizione temporale, forte energia interiore e riduzione della sensazione del dolore.)
Non funziona: mi manda affanculo.
Non demordo, penso che se gli parlo di altre disgrazie, tipo: “Massimo, pensa che culo che hai, in fondo è meglio questa gita di un cliente che non paga”. Mi rimanda in mona.
Esperimenti psicologici falliti.
Ci fermiamo per dedicare un amorevole video alle due “merde” che ci hanno abbandonati (vedi video pubblicato): gli ormai ex-amici Stefano e Dario. Lo mettiamo sul gruppo Montefalcone Parapendio, con mozione di espulsione dal club ed esilio in quel di San Germano dei Berici (meglio un gulag in Siberia).
E siamo ai Gebbani.
Vedo il soccorso alpino e decido di fare uno scherzo: corro vanti e dico al soccorritore di fermare Massimo e di caricarlo nella Jeep, in quanto è in evidente stato di agonia. Il soccorritore esegue. Massimo, che vede svanire il suo sogno di arrivare al Bar Roma infranto dalla solerzia di uno stupido soccorritore, brandisce il bastoncino e minaccia di morte chiunque tenti di fermarlo.
Il tratto Gebbani- Sacco, in falsopiano, è di aiuto, anche al morale. La salita e la discesa lo massacrano, il falsopiano è ancora sopportabile.
Al ristoro del Sacco Cristiano ingurgita 29 fette di melone (ho cercato di contarle, ma era così veloce che ho perso il conto esatto). Il giorno dopo la gara dichiarerà di essere aumentato di due chili, chiedendosi perché. Noi la risposta la sappiamo.
La signora che versa caraffe di acqua e menta è stata proclamata “santa subito” sul posto. Alla Contrada sacco verrà eretta una statua in suo ricordo perenne.
Il morale torna alto.
Al km 28,6 Cristiano afferma: “sono un fiorellino”.
Al Km 28,9 Cristiano, il Fiorellino, dichiara: “ho perso il controllo motorio del mio corpo”. Hanno messo vodka nel melone? Sembra ubriaco. Le sue gambe come le caprette di Heidi: no non fanno balzi, semplicemente gli stanno dicendo “ciao”.
Siamo quasi alla fine. Quasi alla fine per la Trans d’Havet significa 6 o 7 chilometri in leggera discesa, intervallata da qualche salitella, nei quali vedi Valdagno, cioè l’arrivo, proprio li sotto, ma tu continui a girarci intorno come un coglione, senza arrivare mai. Eppure è li, sempre lì. La frustrazione aumenta, con il solo sollievo che piove ed ha piovuto dappertutto, con tuoni e lampi, prima davanti a noi, poi dietro di noi, poi di fianco … e noi non ci becchiamo nemmeno un goccio d’acqua. Beh sosoddifazzioni! Non sapendo che altro dire, tra una bestemmia e l’altra quando la strada risale, parliamo del tempo. Se passiamo a parlare di calciomercato vuol dire che siamo davvero alla frutta. E Valdagno è sempre li sotto, allo stesso posto, come un ora fa. Uguale!
Il solito assistente sul percorso ci dice: “mancano due chilometri all’arrivo”. Un chilometro dopo, il suo collega: “dai che tra tre chilometri site a Valdagno”. Quando incrocio l’ennesimo assistente, metto l’indice davanti al naso facendo segno inequivocabile di tacere. Se gli scappa che mancano ancora 3 km i miei compagni bruciano il residuo di energia in corpo per linciarlo sul posto. Lui capisce che deve tacere dalla mia faccia truce, e per fortuna si limita a salutare con la manina.
Due chilometri dall’arrivo (stavolta sul serio) e Massimo inizia con le varianti sul percorso: dove il sentiero taglia dritto in giù, lui si fa tutta la strada convenzionale a tornanti. Le gambe non reggono: preferisce la strada lunga, ma meno pendente, al sentiero che va dritto in giù.
Poi, come per magia, siamo a Valdagno.
Marco ne avrebbe ancora per altri venti chilometri. E’ un compagno di corsa ideale: sorride, non si lamenta mai, non rompe i coglioni. Insomma è sempre pimpante e positivo.
Cristiano riprende il controllo psicomotorio del suo corpo, smette di dire per l’ennesima volta “che culo, neanche una goccia d’acqua”, e, in un sussulto di orgoglio, ordina: “quando arriviamo in centro si corre fino all’arrivo”.
Massimo, che in stato catatonico non capisce nulla, intuisce tuttavia l’intenzione ed inizia ad insultarlo in tutte le lingue note, in esperanto e aramaico. Sembra la controfigura dell’Esorcista: afferma: “mi no coro”.
E invece corre!
Imboccata Via Garbaldi gli torna la cazzimma. Corriamo tutti e quattro felici. E’ fatta! Gli amici all’arrivo ci applaudono. Cazzo siamo felici, ce l’abbiamo fatta, siamo eroi.
Voliamo in Corso Italia, ci fermiamo a 2 metri dall’arrivo e ci congratuliamo.
Lo scherzo si è trasformato in sfida, la sfida in epica! Siamo eroi, gli ero “normali” della Trans d’Havet.
Scherzi a parte, da ultimo un messaggio, questa volta semi-serio. Tu che leggi, devi sapere che ce la puoi fare. Puoi fare anche tu la tua Trans d’Havet, qualunque essa sia. La volontà è più forte della spossatezza e del dolore. Massimo era ed è un mio amico, ma adesso è anche il mio eroe. Tutti possiamo essere eroi e non solo “just for one day”. Basta uscire dalla nostra zona di comfort e raccogliere la sfida, alzarsi dal divano e affrontare la maratona, affrontare la vita, mettersi la prova e vincere. Ciò che sembra impossibile tre mesi prima, e forse anche il giorno precedente, diventa la nostra gioia. Ce l’abbiamo fatta.